domenica 21 febbraio 2016

LA MALEDIZIONE DELL'ABBAZIA DI THELEMA (PARTE II)

CAPITOLO I
(parte seconda) 

Più che una vera Abbazia, che a primo acchito può far pensare alla presenza di preti o di suore dediti alla vita monastica alla preghiera e all’agricoltura biologica, quella costruzione immersa in mezzo agli olivi era una casa ad un solo piano, costruita in pietra con mura spesse dipinte di bianco ed il tetto fatto con tegole di colore rosso. Di proprietà del Barone Carlo La Calce, grazie ai buoni uffici di Don Giosuè, un vecchio sensale che gestiva un piccolo negozio in centro, molti anni addietro era stata affittata ad un distinto signore inglese che un giorno di fine marzo arrivò in paese in compagnia di una donna e due bambini. Chi fossero in realtà quegli stranieri, i paesani lo scoprirono alcuni anni più tardi quando i carabinieri si presentarono con un ordine di sgombero firmato da Benito Mussolini e li cacciarono via.
Ma per il barone La Calce, quei due erano Sir Alastor de Kerval e la Contessa Leah Harcourt.
Almeno così c’era scritto nel contratto d’affitto.
  Di quella vicenda, così come di altri accadimenti della sua vita, nonna Peppina non ne aveva mai parlato con nessuno tranne che con sua nipote Rosalia, e una sera d’estate, stanca delle insistenze della ragazzina che voleva conoscere sempre nuove storie, gli raccontò della piccola Poupée e di come la vita in quella piccola casa di contrada Santa Barbara, dal giorno della morte di quella bambina cambiò radicalmente.
Non era una bella storia e nonna Peppina non la ricordava volentieri, ma gliela raccontò.
  La piccola Poupée arrivò a Cefalù che era ancora in fasce la mattina di mercoledì 14 aprile del 1920 insieme ad una giovane donna ben vestita e gentile nei modi che mostrava orgogliosamente il pancione. Aveva i capelli  neri corti, le labbra piccole e serrate e scese a fatica dal treno tenendola in braccio avvolta in una piccola coperta bianca e stringendola al petto quasi come a proteggerla dagli sguardi indiscreti dei paesani. Al loro arrivo c'era ad accoglierle quello che tutti conoscevano come Sir Alastor de Kerval che sorridendo diede un bacio sulla guancia alla donna e prese con se la bambina. Poi si incamminarono su per la salita che li avrebbe portati all'Abbazia dove ad attenderli c'era la contessa Leah Harcourt che aveva preparato il pranzo.
 Di Poupée, delle due donne e dei bambini per qualche mese non si seppe più niente, ma in paese erano tutti convinti che quelle femmine erano due prostitute con le quali quell'uomo andava a letto a piacimento.
Non si ebbero notizie fino a quando lo stesso Sir Alastor una mattina di maggio, alla buon'ora, scese in paese per spedire un telegramma ad un noto medico di Napoli chiedendogli di inviargli un farmaco. Solo allora si seppe che quella bambina scesa dal treno in braccio alla madre stava poco bene e peggiorava ogni giorno di più senza che nessuno riuscisse a trovare un rimedio. E d'altronde si poteva fare ben poco per salvare dalla morte una bimba che non riusciva ad assorbire quel poco che mangiava e che lentamente si stava consumando. Soprattutto se nessun dottore andava a visitarla ed era vietato persino avvicinarsi a quella casa.
 I vecchi del paese, che grazie all'impiegato delle poste erano venuti a conoscenza della tragica situazione in cui si trovava quella famiglia che abitava in contrada Santa Barbara non si lasciarono scappare l'occasione per mettere in mostra le loro conoscenze in fatto di medicinali e rimedi naturali, ma quando uno di loro, un pecoraio che pascolava le sue pecore vicino al cimitero asserì di aver visto quell'uomo consultare un vecchio libro ingiallito in cui c'erano raffigurati strani disegni e recitare incomprensibili riti magici, cominciarono a credere che la maledizione di Dio fosse caduta su quella famiglia e in quella casa e che per quella povera creatura non ci sarebbe stato niente da fare.
 Questa convinzione si rafforzò ancor di più nei giorni a venire quando il 14 ottobre videro scendere dal treno quella stessa donna che mesi prima era arrivata con la bimba in braccio. Stavolta era sola ed aveva gli occhi lucidi. Ci volle poco a capire che la medicina arrivata da Napoli non aveva sortito alcun effetto e che la piccola Poupée era deceduta in un lettino dell'ospedale di Palermo dove giorni prima era stata ricoverata.
 In verità ai paesani non interessava molto dello stato di salute di quella strana gente, anzi erano abbastanza contrariati dal fatto che se ne stessero sempre rinchiusi in quella casa di campagna e non dessero confidenza a chicchessia. Questo strano modo di comportarsi li faceva apparire eccentrici e pericolosi, roba da non averci niente a che fare.

Ma se è vero che senza una testimonianza diretta nessuno poté mai affermare con certezza cosa accadde in quei giorni dentro quelle stanze ciò non impedì loro di formulare ipotesi e lasciarsi andare alle più fantasiose teorie. Di una cosa erano sicuri: la morte della piccola aveva portato lo scompiglio in quella strana famiglia perché la madre, forse per gelosia o perché ne era veramente convinta, diede la colpa di quel decesso a quell'altra donna che abitava assieme a loro accusandola di avere esercitato delle terribili stregonerie non solo per far morire la bambina ma anche per farla abortire del figlio che portava in grembo....

sabato 20 febbraio 2016

LA MALEDIZIONE DELL'ABBAZIA DI THELEMA

CAPITOLO I

 Giuseppina Martorana morì venerdì 13 marzo 1991 con dieci anni di ritardo rispetto al previsto.
I dottori le avevano dato poco tempo da vivere quando un decennio prima era stata portata in ospedale per una caduta accidentale con conseguente frattura del femore. In più aveva un fastidioso principio di raffreddore. Fatto due più due, operata e ingessata, i medici dichiararono che l'operazione era andata bene, ma che considerata l'età e lo stato di salute cagionevole della donna potevano insorgere conseguenze abbastanza gravi e non prevedibili. E consigliarono ai parenti di riportarsela a casa. Quella scivolata non prevista causata dal pavimento ancora bagnato e il bollettino medico non certo incoraggiante fecero temere il peggio e suscitarono nella famiglia una forte preoccupazione buttando nello sconforto la piccola nipote Rosalia; una bimba di dieci anni diventata suo malgrado la confidente preferita della nonna alla quale raccontava momenti della sua vita.
Quando nonna Peppina, a causa del pavimento bagnato scivolò nel bagno e sbatté contro il bidet urlando qualcosa in francese, aveva compiuto da poco ottanta anni. Era nata il 28 giugno del 1901,  passato indenne due guerre, sopravvissuta ad anni di fame e privazioni, fatto tutti i lavori possibili e immaginabili e, considerato che suo figlio, per fortuna, aveva un buon lavoro e il resto della famiglia stava discretamente bene, passava il tempo a predire il futuro con i suoi tarocchi a chi glielo chiedeva ed a togliere il malocchio alle zitelle del paese che per accaparrarsi un fidanzato non esitavano a maledirsi a vicenda augurando alla potenziale rivale in amore tutti i peggiori mali esistenti al mondo. Quel giorno i medici non diedero un responso chiaro sulle condizioni di salute e su cosa intendessero con quel “preparatevi al peggio”, ma da quel “preparatevi” al giorno della sua morte passarono altri dieci anni.
  Quel venerdì, dopo aver finito di mangiare, la vecchia si alzò da tavola, chiuse la porta della sua camera, si sedette sulla vecchia sedia a dondolo e accese la tv per guardare l'ottava puntata dello sceneggiato “I miserabili”. Aveva una cotta per Gastone Moschin e quindi non perdeva nemmeno le repliche. Nessuno, tanto meno sua nipote Rosalia poteva immaginare che aprendo la porta l'avrebbe trovata con la testa reclinata e senza vita mentre sullo schermo del piccolo televisore scorrevano i titoli di coda.
Erano le tre e mezzo del pomeriggio e da quel momento in poi perse anche tutte le puntate di “Portobello”.
  Nonna Peppina viveva insieme a suo figlio Nicola, alla nuora Palmira e alla sua unica nipote Rosalia in una piccola casa di mattoni in Via dei Cipressi. Una viuzza stretta e polverosa, coi marciapiedi stretti e ammattonati male quasi all'uscita del paese ma molto trafficata perché oltre ad essere una via d’uscita per chi volesse andarsene, era anche quella che conduceva al cimitero. Insomma, era l’unica strada che si poteva percorrere sia da vivo che da morto.
Considerata la posizione geografica e la vicinanza al camposanto, era una delle poche zone del paese che aveva resistito alla cementificazione, conservava ancora le casette ad un piano con i tetti fatti di tegole gialle e alla fine della strada resisteva l’unica fontanella ancora intatta dalla quale (ogni tanto) sgorgava l’acqua che proveniva da una sorgente di montagna. Ed era anche per questo motivo che nessuno dei vecchi proprietari se n’era mai voluto andare. Ma la vera ragione, quella che li spingeva a rimanere nelle loro piccole casette e rifiutare un bell’appartamento in centro era la paura della solitudine, il non aver nessuno con cui parlare.
Via dei Cipressi era stretta si, ma dentro ognuna di quelle case ci abitava una famiglia che stava lì da decenni e bene o male (dall’inizio alla fine della strada) si conoscevano tutti. Erano (come dire) vicini di casa a distanza. E allora perché andarsi ad infilare in una di quelle nuove abitazioni a cinque o sei piani che erano spuntate come funghi, creato nuovi quartieri e rovinato la bellezza del paese? Palazzine dalle quali, anche affacciandosi al balcone non si vedeva né un filo d'erba né anima viva con cui parlare.
 In paese nonna Peppina era conosciuta da tutti, ma i giudizi su di lei, come capita spesso a chi si costruisce una certa fama, erano contrastanti e derivavano non solo dalla sua capacità di leggere i tarocchi, ma soprattutto dal fatto che nessuno dei compaesani conosceva il suo passato, quindi per uno strano codice etico non scritto, era lecito inventarsi di tutto. Qualcuno la identificava con una vecchia fattucchiera che aveva fatto un patto col diavolo, molti la consideravano una santa donna che con le sue carte aveva aiutato ed aiutava tante persone in difficoltà. Per i più giovani era semplicemente nonna Peppina, la madre di Nicola, quello che vendeva CD di canzone napoletane e ogni giorno girava il paese col suo piccolo carretto e la musica a tutto volume.
 Di Nonna Peppina si diceva che sapesse leggere i tarocchi perché da giovane aveva frequentato, seppur per poco tempo, quella vecchia villetta in contrada Santa Barbara che tutti conoscevano come l'Abbazia di Thelema. Ma erano solo voci, chiacchiere di paese non confermate e messe in giro da vecchie invidiose rincitrullite con gli anni...  

sabato 6 febbraio 2016

UNA BELLA RECENSIONE DI ELENA MANCUSO SUL NUOVO ROMANZO DI SERGIO PALUMBO

Cita Shakespeare: “noi siamo della stessa sostanza di cui son fatti i sogni e la nostra breve vita è circondata da un sonno”, lo scrittore e giornalista Sergio Palumbo nelle prime pagine del suo libro “Tre sogni, tre racconti” edito da Le Farfalle, (35 pagine, 10 euro).
E da lì inizia un viaggio letterario che si articola in una terna di storie tra realtà e leggenda, sogno e fiaba. Da dove emerge “l’accuratezza per una Sicilia mitizzata e il gusto per una narrazione nitida”, come annota nella prefazione al testo arricchito da alcune immagini dal sapore onirico, Angelo Scandurra. Tra le pagine si dipana uno stupefacente mondo altro, parallelo, immaginifico, partendo da personaggi, oggetti e luoghi sensibili.
Ne “Il segreto del raggio verde”, prende corpo la stralunata figura del barone Casimiro Piccolo di Calanovella, cultore della metafisica e pittore di acquerelli “magici”. Le sue fate e i suoi gnomi si materializzano quando un eccezionale fenomeno naturale propizia l’incantesimo a Villa Piccolo, la solitaria magione orlandina in cui viveva l’aristocratico occultista. “Quel raro fenomeno ottico – scrive Palumbo – quel sottile strato luminoso verde-azzurro che dura pochi secondi ci aveva regalato un intimo infinito di magia e poesia”. Ed ecco in sogno spuntare il barone che “somigliava al mago di uno dei suoi acquarelli, col cappello a punta e una casacca blu che ricopriva l’intera figura. Il volto era la caricatura del vero Casimiro. Un naso aguzzo, enorme e sanguigno, sporgeva da una lunga barba d’avorio che terminava ad uncino lasciando intravedere appena il disegno della bocca”. Parlava piano e raccontò di un suo viaggio iniziatico che “lo portò a diventare come gli gnomi e a stare con loro ogni tanto nel villaggio di villa Piccolo”.
Nel secondo racconto “Visione al castagno dei cento cavalli” viene descritto un contatto sciamanico tra il protagonista della storia e una pianta cosmica, che è fonte di energia spirituale, come nella leggenda medievale. Il millenario, gigantesco albero che si trova ancora alle falde dell’Etna, rivela in sogno il prodigioso incontro con una regina che sotto di esso, per via di un furioso temporale, aveva trovato riparo molti secoli prima. “Guardandolo per l’ultima volta – scrive l’autore – fui preso dal dubbio: è stato un incantesimo a portarmi fin qui o sono stato io a volerlo? Ho visto degli spettri oppure è stato un sogno? Addio castagno dei cento cavalli e grazie per l’emozione che mi hai fatto provare”.
Prende le mosse da suggestioni letterarie lampedusiane, il terzo racconto “La sirena dalla coda rossa” dove viene narrata la storia di Porporina, fanciulla vittima di un crudele sortilegio, che, trasformata in pesce, vaga senza pace tra il lago elvetico Ceresio e Basiluzzo, un’isoletta disabitata nel mare delle Eolie. “Gli scenari sono autentici, molti particolari sono realistici, ma un altro tempo e un altro spazio proiettano in questo caso – annota Scandurra – in una dimensione favolistica e surreale”. “Ma per quale – si interroga Palumbo – altro sortilegio la sirena dalla coda rossa era finita nel mare di Sicilia e perché mai io, comune mortale, che appartenevo a un tempo e a un mondo tanto lontani dai suoi, avevo avuto il privilegio di udirne il malinconico sospiro, sono segreti che probabilmente non si potranno svelare”. Insomma è il sogno l’emblematico filo conduttore delle tre prose, ma si avverte comunque sullo sfondo, appena percepibile, una presenza di ombre femminili tutte legate alla memoria personale dell’autore. “E da tali fantasmi del passato Sergio Palumbo si è lasciato catturare – osserva Scandurra – per la stesura di questi testi che, dentro lo stile trasognato, fanno tralucere gli accadimenti di una vita vissuta, e ora reinventata”. (Foto Giovanni Franco)
Elena Mancuso