lunedì 26 gennaio 2009

MARTA ABBA E LUIGI PIRANDELLO: STORIA DI UN AMORE

di Accursio Soldano
Sono ben 560 lettere, quelle che Luigi Pirandello scrisse a Marta Abba, e lei gli rispose ben 280 volte, a testimonianza di un rapporto che andava al di là della semplice collaborazione artistica. Musa ispiratrice del grande scrittore e commediografo agrigentino, Marta Abba fu una delle più grandi interpreti del Novecento, e soprattutto, una delle più grandi interpreti delle commedie del grande drammaturgo siciliano.
Nata a Milano il 25 giugno 1900, primogenita del commerciante Pompeo Abba e di Giuseppina Trabucchi, ebbe con Pirandello un rapporto molto intimo, al punto che lo stesso scrittore agrigentino in una delle sue lettere scriveva “…Marta non m’abbandonare,… non è possibile che tu non sia, come autrice vera e sola, in tutto quello che ancora faccio. Ma io sono la mano. Quella che in me detta dentro, sei tu”
Si è molto discusso, su una presunta storia d'amore, da alcuni ritenuta solo platonica, tra l'attrice e il grande scrittore siciliano, ma sebbene nessuno, ancora oggi sia in grado di affermare con certezza che fra i due non ci fosse solo un amore platonico, e che tutto fosse amplificato dalla celebrità raggiunta da Pirandello dopo il conferimento del premio Nobel, si può affermare con certezza che il rapporto fra i due fu di notevole intensità sentimentale. Senza contare che la loro collaborazione artistica regalò pagine importanti al teatro italiano.
Marta Abba cominciò a studiare recitazione presso l'Accademia dei Filodrammatici, ed esordì sulle scene teatrali nel 1922 nel Gabbiano di Cechov. Nel 1925 avvenne la svolta decisiva della sua carriera artistica. Luigi Pirandello, che l’anno prima grazie ad una sovvenzione di 50.000 lire concessagli da Benito Mussolini aveva creato il teatro “dei dodici”, letta una critica di Marco Praga che ne esaltava le qualità sceniche, la scritturò come prima attrice del suo nuovo Teatro d'Arte di Roma con un contratto che prevedeva una paga di 170 lire giornaliere. Da quel momento, la giovane attrice milanese divenne la musa e l'interprete preferita dal drammaturgo siciliano, portando in scena quasi tutti i suoi lavori. Da “Diana e la Tuda” a “L'amica delle mogli”, fino a “Come tu mi vuoi”. Marta Abba conquisterà il drammaturgo fino a identificarsi in una immagine vivente del teatro pirandelliano: il successo dell’uno sarebbe stato il successo dell’altra.
A testimonianza del rapporto con Pirandello, rimane un epistolario. Un carteggio di circa 560 lettere scritte dallo scrittore, alle quali l'attrice rispose per 280 volte, poi donato all'Università di Princeton nel New Jersey e pubblicato integralmente soltanto nel 1994 da Mursia “Caro maestro... lettere a Luigi Pirandello (1926-1936)”; mentre “Lettere di Luigi Pirandello a Marta Abba”, pubblicato da Mondadori nel 1995, contiene solo le lettere scritte da Pirandello all'attrice.
La pubblicazione avvenne tardi perché per decenni la grande attrice italiana aveva meditato sull'opportunità di mettere a disposizione degli studiosi quei documenti, e continuava a rimandare ogni decisione, combattuta tra il desiderio di rivelare al mondo un Pirandello intimo ed ancora ignoto, e il pudore d'infrangere il velo di riserbo sul loro rapporto.
Nel 1985, all'età di ottantacinque anni, finalmente l'attrice si mise in contatto con l'università di Princeton, che fu ben disposta ad accettare la donazione, garantendone la conservazione e la pubblicazione da parte della Princeton University Press.
Gli ultimi anni li trascorse a San Pellegrino Terme dove morì il 24 giugno 1988, il giorno prima di compiere 88 anni.

venerdì 23 gennaio 2009

UN LIBRO SULLA STORIA DI GIUSEPPE BELLANCA

di Accursio Soldano
La vita di Giuseppe Bellanca, il siciliano che è entrato nella storia dell’aviazione mondiale, è fatta di grandi conquiste e di una grande delusione: non aver fornito a Lindberg il suo monoplano per la trasvolata in solitario da New York a Parigi, ma quando Clarence Chamberlin e Charles Levine con il loro “Miss Columbia” atterrarono a Eisbleden in Sassonia, a 170 chilometri da Berlino, alle 6,30 del 7 giugno 1927, dopo aver percorso, in 44 ore, quasi 6000 km. Chamberlin aveva battuto di ben 700 km il record di Lindberg (atterrato col suo Spirit of Saint Louis a Parigi). L’aeroplano sul quale viaggiavano i due aviatori, battezzato “Miss Columbia” era partito da New York alle 6 e 5 minuti (ora americana) del 4 giugno, e oltre al record di distanza, era il primo velivolo con passeggero a bordo.
Il “Miss Columbia”, entrato nella storia dell’Aviazione, era stato ideato e disegnato da un giovane ingegnere siciliano emigrato in America: Giuseppe Mario Bellanca.
Il volo, in realtà, doveva concludersi a Berlino, ma a causa del maltempo e per la fitta nebbia, i due piloti atterrano a Eisleben. La meta fu raggiunta il giorno 8, dopo un atterraggio a Klinge, in Prussia, dovuto ad un errore di rotta.
L’aeroplano ideato da Giuseppe Bellanca aveva un peso totale di quasi 2500 kg inclusi 1920 litri di benzina e 90 di olio, poteva viaggiare ad una velocità di 180 km/ora ed era munito di un motore Wright Whirlwind da 400 cavalli, raffreddato ad aria.
Una versione meno potente del “Columbia”, il Wright-Bellanca-2 equipaggiato di un motore di 200 cavalli, aveva già conquistato con Acosta e Chamberlin, il record di durata, volando per 51 ore 11 minuti e 25 secondi consecutive. E fu proprio con la conquista di questo record che il velivolo, dapprima chiamato col nome suggestivo di «Mistero», si impose all’attenzione di tutti, tanto che lo stesso Lindberg lo aveva scelto per la sua trasvolata oceanica da New York a Parigi.
Non se ne fece niente perché il socio di Bellanca non era convinto che Lindberg potesse riuscire nell’impresa di trasvolare l’Oceano.
Ma chi era questo ingegnere siciliano che aveva rivoluzionato il modo di volare e aperto all’aviazione la possibilità di nuovi orizzonti?
Giuseppe Mario Bellanca nacque nel 1886 a Sciacca. Da giovane frequentò l’Istituto Tecnico di Milano, laureandosi nel 1908 in matematica. Durante i suoi studi per la seconda laurea in ingegneria aeronautica decide di disegnare e costruire il suo primo aereo. Il primo disegno di Bellanca era un “pusher”, ma non avendo i fondi disponibili per la costruzione si associò con Enea Bossi e Paolo Invernizzi. L’unione dei tre produsse, all’inizio di dicembre del 1909, il primo volo di un aereo totalmente italiano (come disegno e costruzione). Il volo fu breve, ma fu l’inizio di un’epoca!
Il secondo aereo progettato da Bellanca, però, sebbene fosse stato costruito con successo, non volò mai perché non si trovarono i fondi sufficienti per comprare il motore.
Su pressioni di suo fratello Carlo che si era già stabilito a Brooklyn, nel 1911, a 25 anni, Giuseppe Bellanca decise di emigrare in America, e spinto dalla sua passione per il volo, prima della fine dell’anno cominciò a costruire il suo terzo aeroplano con il quale, dopo aver imparato a volare, per guadagnarsi da vivere decise di aprire una Scuola di volo. Uno dei suoi studenti era il giovane Fiorello La Guardia, futuro sindaco di New York City. In cambio delle lezioni di volo, La Guardia insegnò a Bellanca a guidare un’automobile.
Ma la scuola di volo non gli bastava, lui voleva disegnare e costruire aerei. L’occasione gli venne offerta da alcune società americane che lo ingaggiarono come consulente, e poi come progettista per gli aeroplani che montavano i motori Wright.
E fu proprio alla “Wright Aeronautical Corp.” che Bellanca rivoluziona il modo di volare. In controtendenza alla dominante formula biplana, disegna il primo di una serie di monoplani ad ala alta controventata e cabina chiusa. Ed è subito successo: il “Model CF” (poi migliorato e ribattezzato WB-1) vince tredici gare su tredici. Il WB-1 però ebbe vita breve. Il velivolo aveva già vinto una corsa e una competizione di efficienza, ma un incidente distrusse l’aereo durante la preparazione per un tentativo di battere il record mondiale di volo di durata senza rifornimento. Fortunatamente, Bellanca stava già lavorando su una versione migliorata che battezzò con semplice nome di WB-2.
Ma la grande avventura, quella che farà di Bellanca uno dei pionieri della storia dell’aviazione inizia nel 1926.
In quell’anno, il Wright-Bellanca-2 aveva vinto due gare di efficienza al National Air Races di Filadelfia e visto il successo, si pensava di mettere l’aereo in produzione, ma Wright per evitare di respingere altre compagnie aeree che erano potenziali acquirenti dei motori, decise di non dare seguito al progetto. Deluso da questa decisione Bellanca lasciò la Compagnia e si mise in società con un giovane uomo d’affari americano, Charles Levine creando la “Columbia Aircraft company”. L’unione con Levine è caratterizzata da grandi imprese e da grandi delusioni. Fu proprio lui, che nel 1926 respinse la richiesta di Charles Lindbergh di comprare il WB-2, per il volo da New York a Parigi.
Il velivolo, ribattezzato “Miss Columbia” si prese la rivincita pochi giorni dopo, attraversando l’Atlantico e Parigi e stabilendo il nuovo primato di distanza. Partito da New York, sorvolò Princetown, Harbour, Halifax, Terranova, Capo Race, Plymouth, Gand, Crefeld, Dortmund, Cassel e atterrò a Eisleden.
Malgrado il successo dell’impresa, che aveva portato due uomini al di là dell’Oceano, e ad una distanza superiore a quella di Lindgerg, dispiaciuto dal fatto che il Columbia non era stato il primo aereo a compiere la trasvolata oceanica, Bellanca troncò tutti i rapporti con Levine e creò la sua propria compagnia, la “Bellanca Aircraft Corporation of America”.
Con essa omologa il “Bellanca CH200”, monoplano a sei posti per trasporto passeggeri e con la versione successiva, il “CH300” del 1929, migliorata e rimotorizzata registra i primi, corposi ordini d'acquisto: 35 esemplari per varie compagnie di trasporto. Ormai, gli aerei costruiti da Giuseppe Bellanca sono richiesti e usati in tutta L’America.
Ma Bellanca non è contento e continua la sua ricerca per migliorare i suoi aerei. Tra il 1929 e il 1939 la Bellanca Corp. concepisce una serie incredibile di velivoli di successo: il “PM300 Freighter”, primo velivolo della storia a trasportare un carico pagante superiore al proprio peso e lo stesso PM 300 dotato di un motore Packard Diesel stabilisce il primato di durata senza scalo e rifornimenti in 84 ore e 33 minuti, mentre il “Model E Senior Pacemaker” avrà in dotazione i paracadute installati sotto i sedili, proprio come ancora oggi, in tutti gli aerei. Nel 1936 il “Model 28-70” compie la traversata da primato New York-Croydon in 17 ore e 13 min. e frutterà ordini per velivoli che parteciperanno alla Istres-Damasco-Parigi del 1937.
Ed è proprio con un monoplano disegnato da Bellanca e battezzato “Leonardo Da Vinci” che l'aviatore Cesare Sabelli varcherà l'oceano, diventando così il primo aviatore italiano a compiere la trasvolata.
All'inizio del secondo conflitto mondiale Bellanca varierà i progetti dei suoi aerei, realizzando addestratori militari come il “14-7” e il “14-9”, un triposto a doppio comando con posti affiancati anteriori e, subito dopo la seconda guerra mondiale crea il “14-19 Cruisemaster” che nel 1959 subirà la fortunata metamorfosi nel “Bellanca Viking”, monoplano che ancora oggi solca i cieli.
Giuseppe Bellanca, ammalatosi di Leucemia, morirà a NewYork nel 1960, ma la storia degli aerei disegnati e costruiti da questo giovane ingegnere sciacchitano, che a 25 anni emigrò in America in cerca di fortuna e di soldi per poter costruire i suoi monoplani, continua con la produzione odierna dei modelli Decathlon e Scout.
Nel 1993 suo figlio, August Bellanca ha donato i documenti professionali e personali di suo padre all’Archivio del Museo Nazionale dell’ Aria e dello Spazio di Washington (National Air and Space Museum), dove ogni anno, migliaia di visitatori rendono omaggio a questo piccolo uomo sciacchitano che, partito dalla Sicilia senza i soldi per poter comprare il motore del suo aereo, è diventato uno dei pionieri nella storia dell’aviazione.

In preparazione un libro che racconta la storia di Giuseppe Bellanca, e dei piloti che, con i suoi aerei, batterono tutti i record mondiali. Il libro contiene anche articoli e foto dell'epoca d'oro dell'aviazione mondiale.

L'ATTUALITA' DEI VICERE' DI ... DE ROBERTO

di Accursio Soldano
Quando Federico De Roberto morì, a Catania, il 26 luglio del 1927, aveva la netta sensazione di essere un fallito. Era riuscito a superare brillantemente il boicottaggio degli ambienti più conservatori, ma non il giudizio del filosofo Benedetto Croce, che definì “I Vicerè” un feuiletton, un’opera farraginosa e cerebrale, tutta di intelletto e priva di sentimento. Denunciare il fallimento del Risorgimento, anche attraverso la storia di una immaginaria famiglia non era cosa facile per quei tempi: forse era questo, il maggior torto di De Roberto.
I Vicerè” fu pubblicato nell'agosto del 1894 dall’editore Galli di Milano, e sebbene oggi sia considerato il capolavoro dello scrittore siciliano, per uno strano gioco del destino, a quel tempo, fu l'inizio del suo progressivo isolamento e la “conferma” che, malgrado i suoi sforzi letterari, nessuno avrebbe inserito il suo nome fra gli scrittori italiani. Su quel romanzo lo scrittore ci aveva lavorato per ben due anni. Due anni pieni di infinite ricerche, tanto da procurargli una fatica sia mentale che fisica, che lo psichiatra svizzero Dubois, al quale De Robertò si rivolse, definì, con una diagnosi alquanto approssimativa, come «uno dei più rari casi di isterismo mascolino». In realtà, al di là della diagnosi medica, i problemi erano da ricercare nella sua sensazione di fallimento, dovuta soprattutto alle critiche negative al suo romanzo. E pensare che Luigi Capuana stesso, il 5 ottobre del 1894 scrivendo all'amico ebbe a dire “Dall’Illusione ai Vicerè hai fatto non un salto, ma una volata lunga, meravigliosa.”
Ma non bastava il giudizio positivo del suo conterraneo Capuana. In una lettera all'amico Mario Puccini, De Roberto scriveva che “Nessuno sa meglio di me quanto poco ho fatto e quanto è giustificato il silenzio che mi circonda per ora e quello, più grande, che avvolgerà il mio nome. I sogni, sì, erano vasti e belli, ma ne tradussi, troppo male, troppa poca parte”. Una vera e propria dichiarazione di fallimento. Sia personale che come scrittore. Il risultato fu un progressivo isolamento da tutto e da tutti.
E pensare che oggi, quel romanzo, in cui le vicende del risorgimento meridionale sono narrate attraverso la storia della famiglia nobile degli Uzeda, è considerato uno dei capolavori del 900.
In realtà, nel progetto originale, quella degli Uzeda, questa immaginaria famiglia discendente dagli antichi Viceré di Sicilia, doveva essere una trilogia, ma De Roberto riuscì a completare solo i primi due volumi. “L'illusione” pubblicato nel 1891, è basato sul personaggio della ricca nobildonna Teresa Uzeda, che, dopo aver lasciato il marito e il figlio per inseguire i suoi sogni d’amore, scopre le illusioni della vita, “I Viceré”, che si chiudeva con l’elezione al Parlamento di Consalvo Uzeda nel 1882, e infine “L'imperio” che avrebbe raccontato la storia parlamentare di Consalvo e la sua vita a Roma, a partire dal 22 novembre 1882, giorno di inizio della XIV legislatura. Ma la freddezza e i giudizi negativi con il quale fu accolto il secondo capitolo della trilogia, e i pochi giudizi positivi alla sua precedente attività letteraria, fecero sì che De Roberto non completasse il terzo capitolo. Che sarà pubblicato postumo nel 1929 da Mondadori. Sebbene ci abbia provato.
Lo scrittore infatti, abbandonò il progetto dell'Imperio nel 1894 dopo aver scritto i primi cinque capitoli, e lo riprese nel 1908, quando si trasferì a Roma per frequentare gli ambienti parlamentari e giornalistici. In quell'anno, il giorno di Natale comunicò alla madre che “Ieri, vigilia di Natale, ho scritto la prima pagina del romanzo. Andrò avanti? Chi ne sa niente!”. Il trasferimento nella capitale era, si può dire, un atto dovuto. De Roberto aveva bisogno di toccare con mano quello che riportava nel suo romanzo, “Sono stato e starò ancora un pezzo alle calcagna di un redattore politico del Giornale d’Italia seguendolo per i ministeri, alla Camera e al Senato, perché il personaggio del mio libro si deve occupare di queste cose”. Ma alla fine, il romanzo non fu completato.
Ma a cosa erano dovuti quei giudizi negativi ai primi due libri della trilogia degli Uzeda, tanto da condizionarne la produzione letteraria, e al punto da attirarsi la critica negativa del filosofoBenedetto Croce? Una delle cause è da ricercare nella non-scelta della scrittura.
Salta subito agli occhi che, mentre nel primo romanzo la protagonista, presumibilmente ispirata dal romanzo “Madame Bovary” di Flaubert, si allontana dalla morale pubblica per compiere una sorta di percorso formativo al contrario, gli altri due romanzi della trilogia hanno un impianto scenico corale, nel quale è vero, spicca come attore protagonista il principe Consalvo, che, per reagire al declino della sua casata, decide di darsi alla politica.
Il primo romanzo è, come lo definì lo stesso scrittore siciliano “un monologo di 450 pagine” dove sia la narrazione che il linguaggio sono prevedibili. Teresa Uzeda, la protagonista, è una donna superficiale, testarda e capricciosa la cui cultura è fondata sulle favole della vecchia nutrice, sul melodramma e sulla cattiva letteratura. Far parlare una simile donna significa riempire il libro di stereotipi e di banalità: cosa che De Roberto fa!
E allora, per certi versi, non si può dare torto a Croce quando dichiara che “pare, come se tutte le donne e gli uomini dei racconti di questa sorta di passioni e avventure amorose, siano convenute nel romanzo a ripetere stancamente le parti da loro innumerevoli volte recitate”
De Roberto era convinto che l’osservazione realistica fosse possibile solo nel dialogo, e che l’indagine della sfera psicologica, invece, coincidesse con l’auto-osservazione dello scrittore, riflesso nei personaggi come in un gioco di specchi. Questa specie di doppio binario creativo mischiava un linguaggio e un modo narrativo, che era allo stesso tempo di stampo verista e psicologistica .
Un punto d'unione fra Verga e Bourget.
Ne “I vicerè” De Roberto segue gli Uzeda, li spia, nel descriverli li rappresenta avari, feroci, smaniosi di primeggiare fino al grottesco. Ma non c’è più, come nel primo libro un singolo personaggio, una prospettiva ristretta del mondo, stavolta è il narratore che si sposta sulla scena, come il regista di una piece teatrale, da un personaggio all’altro, da un punto all’altro dello spazio e del tempo.
Amico di Giovanni Verga e sostenitore della poetica verista, De Roberto applica rigorosamente i dettami linguistici del verismo, portandoli però alle estreme conseguenze. Ne risulta, come ovvio, una totale impersonalità del narratore e una precisa osservazione dei fatti. E, nonostante le dichiarazioni in senso contrario, subisce l’influenza dello psicologismo di Paul Bourget che lo scrittore conobbe di persona e frequentò in Sicilia.
Proveniente da una nobile famiglia catanese, Federico De Roberto nacque a Napoli il 16 gennaio 1861, ed alla sua prima formazione scientifica affiancò l'interesse per gli studi classici.
Giornalista e scrittore, Federico De Roberto iniziò a scrivere per “L'illustrazione italiana” descrivendo la traslazione delle ceneri di Vincenzo Bellini nella cattedrale di Catania. Poi collaborò con importanti riviste e quotidiani. Da “Il Don Chisciotte”, di cui fu direttore dal 1881 al 1883, a “Il Fanfulla della Domenica”, nel quale si firmava con lo pseudonimo di Hamlet, fino a La Domenica Letteraria, Il Giornale di Sicilia, Il Giornale d'Italia e Il Corriere della Sera.
Oggi si discute dei Vicerè come uno dei capolavori del verismo, con tutta la sua piena attualità.
“E vedi lo zio come fa onore alla famiglia? Quando c'erano i Viceré, i nostri erano Viceré; adesso che abbiamo il Parlamento, lo zio è deputato!”

IO E MISTER PINK

di Accursio Soldano
Steve Buscemi, il paranoico mister pink del film “Le iene” di Tarantino, ha compiuto 50 anni.
Il mister pink di “Le iene”, che discuteva animatamente sulla scelta del soprannome da usare per la rapina in banca nel film di Tarantino, l’ho incontrato durante un suo viaggio in Sicilia, e precisamente a Menfi, alla ricerca delle proprie origini. D'altronde il cognome non lascia dubbi sulle sue origini italiane, ma ci tiene a precisare che in realtà, malgrado la discussione animata con Mister black, a lui il colore viola piace.
Il suo bisnonno Giuseppe Buscemi, nel 1909 all'età di otto anni, così come tanti siciliani, partì da Menfi con una valigia piena di speranze e una targhetta con il suo nome appiccicata al petto. Anche lui in cerca di fortuna in America. Si stabilì a Brooklyn, dove nacquero i suoi figli.
Adesso il popolare attore americano ha deciso di venire in Sicilia e visitare quei posti immaginati nei tanti racconti del nonno, ma che né lui né suo padre avevamo mai visto. Un ritorno alle origini, dopo quattro generazioni, per respirare l'aria di famiglia.
Ed ha incontrato i suoi cugini.
Steve Buscemi è cresciuto a Long Island, e fino al 1986, non pensava di diventare uno degli attori preferiti di Quentin Tarantino e dei fratelli Coen (quelli di "Non è un paese per vecchi"): faceva il pompiere. La svolta arriva quando si trasferisce nell'East Village per frequentare i corsi di recitazione del Lee Strasberg Institute. Ed è lì, che nel 1986 viene scelto da Bill Sherwood per interpretare Nick, cantante rock malato di Aids, nel film Parting Glances. È l'inizio di una carriera di attore che lo vedrà impegnato con registi del calibro di Jim Jarmusch e dei fratelli Coen, con i quali ha lavorato in “Barton Fink”, poi nel ruolo del barista beat in “Mister Hula Hoop" e ancora nel bellissmo “Il grande Lebowski”.
Ma il ruolo che lo renderà famoso al grande pubblico, sarà il “Mister pink” nel film "Le iene" di Quentin Tarantino, per il quale ha vinto il premio della IFP Spirit Awards
Steve è una persona semplice, a parlare con lui non hai proprio l’impressione di parlare con un divo del cinema… chissà… magari fra divi ci capiamo!

L'AEROPORTO FANTASMA DI SCIACCA

di Accursio Soldano
Gli aerei inglesi e quelli degli americani avevano sorvolato tante volte quella zona della Sicilia, ma sotto di loro solo campagna, montagne brulle, pascoli ed uliveti. Per ben tre anni nessuno era riuscito a capire da dove arrivassero quegli aerei italiani che, come se fossero sbucati dalle nuvole bombardavano Malta, sfiancavano la resistenza anglo-francese e soprattutto, come facessero a sparire nel nulla.
Quel giorno, gli avieri delle forze alleate che stavano preparando lo sbarco in Sicilia ebbero un ordine ben preciso. L'aeroporto fantasma, quello che per ben tre anni era sfuggito a qualsiasi incursione aerea, si trovava a latitudine 37° 34' 370'' Nord e longitudine 13° 04' 006'' est. Praticamente c’erano passati sopra tante volte e non l’avevano mai visto. Oggi si doveva distruggere.
L’aeroporto militare di Sciacca nacque nel 1939 con un progetto agricolo che, sulla carta, doveva migliorare le condizione del terreno. Tutta la zona pianeggiante di contrada “Piana” fu coltivata ad ulivi posizionati ad una distanza, l’uno dall’altro, non congeniale per quei tempi. In verità, la distanza fra un ulivo e l’altro era calcolata in base alla larghezza degli aerei.
Allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale però, la Regia Aeronautica era ancora in fase di riorganizzazione e la dichiarazione di guerra colse quasi di sorpresa la nostra aviazione.
Le difficoltà si presentarono subito. Eventuali risultati positivi della nostra aviazione erano condizionati oltre che dallo scarto tecnologico nei confronti degli anglo-francesi e in seguito degli americani, anche dall'insufficienza delle risorse, dalle distanze delle fonti di rifornimento, e dalla durata della stessa guerra.
Si cercò allora di creare in fretta nuovi punti di appoggio per gli stormi aerei che dovevano presidiare il canale di Sicilia con compiti offensivi o difensivi. E niente di meglio che, per questo scopo, usare l’aeroporto di Sciacca.
Nelle zone pianeggianti coltivate a prato furono costruite delle piste. Mantenendo intatta tutta la coltivazione di uliveti e di pascoli, pista, hangar ed aerei erano perfettamente mimetizzati in mezzo ad un folto uliveto, gli aerei a terra e le attrezzature erano sempre ricoperti da grandi rami di ulivo e dall'alto, i ricognitori angloamericani non riuscivano a vedere assolutamente nulla. Tutte le case dei contadini vennero requisite, prima, dal Comando Italiano, e nel 1941, dal comando Tedesco per adibirli ad alloggi per gli avieri e per gli ufficiali.
Alla base aerea operavano il trentesimo stormo bombardamento marittimo, dotato di veivoli SM 79, che effettuava missioni di ricognizione offensiva e di scorta a convogli nazionali, il centoduesimo gruppo avieri che si distinse per le azioni di guerra su Malta, tanto che lo stesso Benito Mussolini, il 24 giugno 1942 venne a Sciacca per decorare gli equipaggi e il decimo stormo.
La posizione strategica di questa base militare e la perfetta mimetizzazione ne avevano fatto un punto di riferimento delle forze aeree impegnate in missioni in Nord'Africa, specialmente per i bombardamenti su Malta, distante ben 141 miglia.
Nacque così l'aeroporto di Sciacca che per le sue caratteristiche, sarà soprannominato “l'aeroporto fantasma”. Nel Mediterraneo, partendo da Sciacca, gli aerei italiani potevano contrastare con successo l'azione della flotta inglese. Malta venne continuamente martellata e ridotta allo stremo dopo che la flotta inglese, per ben nove mesi, non riuscì a forzare il blocco italo-tedesco nel Mediterraneo.
La Base rimase nascosta e mimetizzata per ben 3 anni, dal 1940 al 1943, sfuggendo alle incursioni aeree dei nemici che sorvolavano e bombardavano gli altri aeroporti siciliani.
Ma il 21 maggio 1943, dalle 10 alle 10.30 del mattino il tanto temuto bombardamento da parte degli alleati anglo-americani prese tutti alla sprovvista. Seguendo la rotta, tante volte provata, Malta-Calamonaci-San Calogero-Nadore, gli aerei delle forze alleate arrivano sull'aeroporto di Sciacca e cominciano a sganciare bombe. La sorpresa fu così tanta, che la contraerea, sistemata nella zona del Nadore, non riuscì neanche a sparare un colpo.
A terra, una tragedia. Tanti morti e decine di feriti. Era il 21 maggio, due mesi dopo, il 19 luglio, gli alleati sbarcarono a Gela e dell’aeroporto fantasma non c’era che case distrutte e pezzi di aerei sul terreno. In mezzo agli ulivi.

giovedì 22 gennaio 2009

UCCIDE LA MOGLIE DOPO UN SMS DI AVVISO


Una donna di 50 anni, Mariangela Catalano, è stata uccisa a Foggia con un colpo di fucile al volto mentre si trovava a bordo della sua auto, in via Natola, alla periferia della città. La vittima lavorava presso la direzione sanitaria degli Ospedali Riuniti di Foggia. A quanto si è saputo, l'omicidio sarebbe di natura passionale. La vittima era da qualche tempo separata dal marito, di origini siciliane. Secondo le prime indagini della polizia, l'uomo avrebbe agito a bordo di un'autovettura: in via Natola, strada periferica a tre corsie a scorrimento veloce, avrebbe affiancato l'autovettura della donna e avrebbe sparato un colpo di fucile. Il proiettile ha colpito la donna in pieno volto, uccidendola.
Il movente del delitto - secondo le prime indagini - sarebbe di natura passionale. In particolare, si è appreso che ieri sera la donna aveva ricevuto un sms dall'ex marito nel quale erano contenute minacce che gli investigatori sintetizzano così: "Vengo, ti ammazzo e poi mi tolgo la vita".
Fin qui la notizia. Adesso una considerazione. I 50 anni sono una brutta età. Pensi di esserci arrivato a fatica e vorresti vivere tranquillo, ed invece trovi sempre qualcuno che ti rompe le palle, specialmente le ex mogli. E allora cominci a fare pensieri strani, anche estremi, per togliere di mezzo quell'unico ostacolo alla serenità della tua vita. Conosco un sacco di persone, reduci da matrimoni falliti, che hanno passato gli anni seguenti a difendersi dalle aggressioni delle ex mogli o ex mariti che, d'un tratto, malgrado il tradimento, diventano depositari del vittimismo. E un sacco di gente che, quando sente notizie del genere si dice: prima non capivo come fosse possibile, adesso capisco che si può fare!
Questo non per giustificare, ci mancherebbe, un omicidio è un omicidio...!

mercoledì 21 gennaio 2009

SINGLE... SOTTO IL MANDORLO


di Accursio Soldano
Una marea di single in cerca dell'amore invaderanno la valle dei templi in occasione della sagra del mandorlo in fiore. C'è chi ogni anno giunge da diverse parti d'Italia e della Sicilia per partecipare alla Sagra del mandorlo in fiore, chi per vedere sfilare i gruppi folkloristici che provengono da ogni parte del mondo. Da quest'anno, ci sono anche quelli che andranno a vedere la Sagra agrigentina nella speranza che sotto il mandorlo nasca il fiore dell'amore.Questo perché una nota agenzia palermitana specializzata nell'organizzazione di eventi per single ha deciso di organizzare per domenica 8 febbraio un viaggio nella città dei Templi, rigorosamente rivolto ai single di ogni età.L'agenzia, che ha un proprio sito internet, "Solopersingle.it, vuole dare la possibilità ai single di conoscere persone nuove. E quindi ha deciso di organizzare un pullman carico di persone desiderosi di fare nuove amicizie e di passare una giornata diversa all'insegna del divertimento organizzando una gita ad Agrigento in occasione della festa del mandorlo in fiore. Il programma prevede la riunione dei partecipanti e la partenza alle 7 di mattina dal Piazzale Giotto di Palermo alla volta di Agrigento, poi pranzo presso un agriturismo e infine, se nel frattempo è scoppiata la scintilla, il resto del tempo a disposizione. Se invece non è successo niente durante il tragitto, si può sempre sperare che la scintilla dell'amore scocchi al passaggio dei gruppi flokloristici. La quota di partecipazione è di 35 euro a persona.
Non sappiamo ancora quanti arriveranno ad Agrigento, ma segnaliamo la notizia a tutti i single saccensi desiderosi di incontrare l'anima gemella. Considerato che le vie dell'amore sono infinite, e che son finiti i tempi dei principi azzurri a cavallo, magari l'amore arriva da Palermo, a bordo di un pullman.

sabato 17 gennaio 2009

GAZA 2009





no comment

GIUDICI DI PACE: PROPOSTA DI MARINELLO


Si è svolto presso l'Hotel Nazionale di Roma (piazza Montecitorio) l'atteso convegno, organizzato dall'Associazione nazionale giudici di pace (Angdp) sul tema: “Continuità nell'incarico, previdenza, Consiglio superiore della magistratura. Aspetti di uno stesso problema: il giudice di pace, magistrato togato nell'ordinamento giudiziario“. Al centro del dibattito vi sarà la proposta di legge, atto C911 della camera dei deputati, d'iniziativa dei deputati, quali primi firmatari, Giuseppe Marinello, Vincenzo Antonio Fontana, Misuraca, Pagano: “Disposizioni in materia di durata dell'ufficio, trattamento previdenziale e ruolo organico dei giudici di pace“. Giova dire che nella precedente legislatura tale proposta vide, quale secondo firmatario, l'on. Angelino Alfano, attuale ministro della giustizia. Essa, molto schematica ed essenziale, si compone di soli undici articoli, il cui perno è rappresentato dai primi due:

a) art.1. Il rapporto di servizio del magistrato che esercita le funzioni di giudice di pace ha la durata di quattro anni a decorrere dalla data di giuramento e di immissione nel possesso delle funzioni; esso si protrae per ulteriori periodi di quattro anni, subordinatamente al giudizio di idoneità di cui al comma 2-bis (della legge istitutiva ). Viene cosi rimosso l'ostacolo degli attuali tre mandati, un macigno indecente che procura precarietà, contro cui si è espresso il ministro Alfano nella audizione che ebbe a conferire nell'ormai lontano 17 settembre 2008 anche alla nostra associazione (eravamo interlocutori attenti e presenti, ricorda sen. Caliendo, successivamente delegato dal ministro?);
b) art.2. Obbligo di assicurazione. 1. A decorrere dal 1° gennaio 2002 i giudici di pace in servizio in tale data e iscritti alla Cassa nazionale di previdenza e assistenza forense, di seguito denominata Cassa, sono assoggettati all'obbligo dell'assicurazione per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti. 2. I giudici di pace non scritti alla cassa sono iscritti alla gestione separata presso l'Inps. La premessa è che i gdp non possono essere ritenuti onorari, cioè sostituti del magistrato di carriera (gli ex vice pretori, gli attuali got e vpo ). Essi, occorre ripeterlo sempre, hanno un'autonomia giurisdizionale esclusiva per materia e per valore in civile; hanno una specifica competenza penale. In sostanza sono anch'essi magistrati togati, come tutti possono agevolmente verificare nelle aule penali. Applicano le leggi in nome del popolo italiano.
Mettere fine al precariato. Ci chiediamo, quotidianamente, nell'esercizio di tale gravosa incombenza, possono dei magistrati essere precari? Allo scadere del terzo mandato, tutti a casa con inevitabili effetti paralizzanti per gli uffici, con nuovi tirocini, corsi di formazione e nuova professionalità da creare. Con buona pace del milione e 300 mila sentenze emesse in un anno! Altro che bagattelle. Risposte concrete a chi chiede la tutela del proprio diritto contro vessazioni e abusi. Qual è la serenità di un magistrato, se è precario e privo anche di previdenza? Il reddito prodotto non serve a niente. Se si è avvocati non fa premio su quello professionale e non incide sulla pensione. E chi non è avvocato? Resta completamente a piedi. L'on .Marinello e quanti hanno sottoscritto e gli altri che sappiamo si stanno aggiungendo, hanno messo i piedi nel piatto .
Riforma a costo zero. La riforma è a costo zero per quanto attiene la continuità, anzi rappresenta un notevole risparmio. Si evita una parte delle spese per i concorsi e di formare circa 3 mila giudici, attualmente in servizio, la cui capacità operativa e professionale è garantita da milioni di sentenze emesse in questi anni. La riforma ha un costo minimo per la previdenza. E' previsto un ridimensionamento dell'organico con appropriate e allegate tabelle, che ovviamente non ripeta la frettolosa ed errata riformina Scotti, fatta sostanzialmente per riaprire i concorsi. Un esempio? Ufficio di Pordenone, attualmente composto da sette giudici, che nel decorso anno ha visto un carico di circa 1.500 cause, con un'attribuzione di circa 214 per ogni giudice. L'organico è stato incrementato a 13 componenti, senza un ragionevole bisogno. Ciascun giudice quindi si occuperà in futuro di circa 115 cause. Viva l'Italia che lavora e che vuole lavorare!
Aspetti significativi del disegno di legge Marinello. La presentazione della proposta di legge Marinello ed altri, che accompagna l'articolato è significativa.
Leggiamone alcuni passi significativi: “(_) la figura del giudice di pace, anche per le caratteristiche precisate, esige uno stato giuridico che deve esser definito con riguardo all'impegno a tempo pieno richiesto dall'attività lavorativa svolta, nonché alla rappresentanza istituzionale che garantisca autonomia, indipendenza e durata della funzione (_).
Il rapporto di servizio non può essere limitato nel tempo, ma deve protrarsi secondo criteri di ragionevolezza e in ossequio ai principi della buona amministrazione. Esso deve esser sottoposto a verifiche periodiche sulla quantità e sulla qualità del lavoro svolto, nonché sulla coerenza della condotta alla funzione esercitata”. Sottoscriviamo in pieno. E' la posizione che da tempo stiamo portando avanti con realismo, senza dilatorie fughe in avanti , e che tanti consensi ha riversato nei confronti dei rappresentanti dell'Angdp in occasione delle recenti elezioni nei consigli giudiziari.
E conclude sul punto l'on Marinello: “Si ritiene che sia compito del legislatore intervenire in via di urgenza e nel senso indicato. Infatti un ordinamento giuridico democratico fondato sul lavoro, uno Stato sociale di diritto non può pretendere di adempiere alla funzione giurisdizionale attraverso giudici di pace dei quali voglia perpetuare lo stato giuridico di soggetti precari, né lo stato giuridico del giudice di pace può ancora continuare a ignorare gran parte dei diritti costituzionalmente garantiti a tutti lavoratori dagli articoli 35 e seguenti della Costituzione“.
Questo sul punto, che condividiamo totalmente. Prosegue la relazione accompagnatoria in tema di previdenza: “(_) dal maggio 1995, periodo di inizio dell'attività, i giudici di pace sono rimasti senza copertura previdenziale, a differenza di altre categorie di lavoratori dipendenti, lavoratori autonomi, professionisti e lavoratori parasubordinati ai quali da ultimi è stata garantita una tutela assicurativa previdenziale con la legge 8 agosto 1995, n. 335 .
Tale discriminazione è inaccettabile sia sotto il profilo giuridico-costituzionale sia sotto il profilo sociale. Il problema è maggiormente accentuato in quest'ultimo periodo per effetto della anticipazione da 50 a 30 anni dell'ingresso in funzione. Da qui l'insorgenza di maggiori e pressanti problemi di tutela non solo previdenziale, ma anche assicurativa per questa seconda generazione di giudici (_)”. Non occorre aggiungere altro da parte nostra. Il problema era ben chiaro anche all'on. Angelino Alfano, che, nella sua qualità di ministro, il 17 settembre scorso, ricevendo con molta attenzione la delegazione dell'Angdp e dell'Unagipa, ebbe a formulare chiari auspici di fine del precariato ed attribuzione della previdenza per i gdp , delegando a voce il sottosegretario Caliendo. La riunione si chiuse con l'intesa di un futuro incontro collaborativo per definire quanto era stato discusso. A distanza di quattro mesi il sen.Caliendo non ha inteso convocarci. Sappiamo che gli uffici ministeriali stanno lavorando su un disegno di legge complessivo, che sulla scia dell'affossato disegno di legge Scotti coinvolga anche i giudici onorari di tribunale, ponendoci al servizio dei giudici carriera.
Nulla è certo. Anche questa volta non vorremmo trovarci su un prendere o lasciare, a giochi fatti. Anche questa volta non potrà non essere adeguata .
Il gdp nel Csm. Il convegno infine si occuperà di una terza tematica: la partecipazione dei giudici di pace al Consiglio superiore della magistratura. Anche questa una vecchia battaglia dell'Angdp. Tutti ricordiamo la candidatura del presidente Petrelli, avanzata ovviamente per porre il problema, e il successivo pronunciamento negativo della Cassazione. La partecipazione dei gdp al Csm rappresenta la logica conclusione dei problemi posti, sul significato stesso di essere giudice di pace. Chiediamo una rappresentanza nella forma che la Costituzione permetterà, che comunque superi l'attuale contraddizione di magistrati, facenti parte dell'ordinamento giudiziario, dotati di autonomia funzionale per materia sia in civile che in penale, che in sede disciplinare e conferma nell'incarico sono etero diretti. Non è un problema da poco e anche questo è attuale. I tempi sono maturi, giacché si sta parlando di una riforma più complessiva del Consiglio superiore della magistratura. Con una legge ordinaria abbiamo ottenuto i consigli giudiziari per i giudici di pace. Altrettanto si può fare per il Csm con una forma di presenza compatibile con la costituzione. Certo che lo status quo non è più confacente ai tempi .